13 marzo 2015

25 febbraio 2015

IL LUNGO ABBRACCIO DEL VELA

La mattinata all’Abetone è volata via veloce e senza intoppi. Ogni volta che ci si avvicina ad un evento la paura è sempre quella della prima volta che ho accompagnato persone con disabilità a conoscere il monosci. Albergo e impianti già conosciuti e massima garanzia di accessibilità. Nel fine settimana dal 5 all’8 marzo, nelle mani dell’associazione varesina Freerider Sport Events saremo in 110! 
Tutto a posto, tutto pronto, nessuna preoccupazione a parte quella del tempo che farà. Si riparte verso casa soddisfatti. Scendendo in macchina si incontra Pescia. In macchina con me c’è il Caccia. A Pescia c’è una coppia che il Caccia adora. 
Lui, Alessandro, è nato e cresciuto a Pescia, volato e rimasto in Brasile, a Porto Alegre, per amore di lei, Daniella, che una tantum si concede una vacanza nella terra del suo compagno.
Per il Caccia è una rara occasione di parlare e respirare la sua passione intrisa di verde oro. Per me il secondo incontro con la coppia che potrebbe essere il mio punto di riferimento per quella che sarà la mia quarta e ultima Paralimpiade dal vivo: Rio 2016.
Due splendidi abbracci e si riparte ma il piede sull’acceleratore si rialza quasi subito perché sul lato destro della strada c’è un cartello  che indica Pistoia a pochi km. A Pistoia da un paio di settimane c’è l’ex allenatore del Varese Stefano Sottili. Arrivato al posto di Lucarelli ha rimesso gli arancioni in carreggiata vincendo due partite su due. E poi lo stadio. E’ messo peggio di quello di Magnago ma come il "Franco Ossola" è popolato da bei ricordi. Su tutti il “diversamente scudetto” della Primavera di Devis Mangia con gli spogliatoi palcoscenico del coro “non succederà più” urlato a squarcia gola da nessun biancorosso escluso. Breve pit stop per una telefonata e il mister è precettato.
L’incontro avviene sotto la curva dello stadio chiusa da tempo perché inagibile. La stessa dove l’allora allenatore della Fiorentina Primavera, Renato Buso, saltava nervosamente su e giù dai gradoni mentre sul campo la sua squadra non riusciva a far gol al Varese ridotto in 8. Eccolo Sottili! Casacche in una mano e programma dell’allenamento quotidiano nell’altra. Scatta l’abbraccio con il Caccia e l’inevitabile domanda “come sta il Varese?”. Il Caccia sussurra un disperato “viviamo alla giornata sperando di arrivare in fondo”. Poi tocca a me e mi viene da porgere la mano perché la confidenza con il mister non è la stessa della Caccia.
Invece no, anche per me c’è un abbraccio. Il periodo personale non è dei migliori e quindi un abbraccio, il secondo della giornata, fa sempre bene. Se poi da uno che c’è venuto una volta sola senti dire “quand’è la tu serata al Vela?”, beh allora la giornata che voleva essere di scarico da cattivi pensieri sale al massimo livello e diventa speciale. “Come non la fai? Possibile che ci si perda una cosa così?”. Io e il Caccia pensiamo a due perdite diverse ma nessuno dei due risponde. “E come sta Bebe Vio? - fa pressing il mister - Chegganza ragazzi! Da quando l’ho conosciuta al Vela la “uso” come esempio con chiunque, in ogni occasione, in primis con i miei figli e più recentemente con i miei nuovi giocatori. Una lezione ricevuta in dono a cui voglio dar più valore condividendola con più gente possibile, soprattutto i giovani. Spero di poterla rivedere presto Bebe".
La Pistoiese è già al lavoro sul campo guidata da Bongiorni. anche lui era al Varese con Sottili. Alle nostre spalle arriva Nelso Ricci, espertissimo Direttore Sportivo della Pistoiese. “Direttore - fa Sottili - questi sono amici venuti a trovarmi da Varese”. Ricci si gira e prima di entrare in sede sfodera l’essenza della toscanità: “Qualche danno l’hai fatto anche lì!” 

Una sana risata e abbracci veri concludono una belle giornata iniziata con l’ennesima notte insonne di questi ultimi mesi zeppa di preoccupazione e cattivi pensieri, proseguita tra il monte e il mare di Toscana dove mi hanno accolto con un abbraccio, chiedendomi del Vela. 

23 gennaio 2015

SI PRENDE E SI VA. PER IMPARARE

Per la Cimberio seduta era l’ennesima partita della vita. A Gradisca d’Isonzo la squadra di Varese che gioca a basket in carrozzina aveva l’esame senza riparazione per aprire un’altra porta della sua storia: quella d’entrata nelle otto squadre più forti del diversamente Paese. L’ideale per Damiano e compagni era vincere con più di sei punti di vantaggio per raggiungere il Gradisca al secondo posto in classifica mettendogli il muso davanti nella differenza canestri dei due incontri diretti. All’andata i biancorossi si svegliarono solo al rientro in campo per giocare gli ultimi due quarti quando ormai la partita era saldamente in mano ai friulani che chiudendo sul 43 a 49 ripartirono da Malnate verso casa caricando sul pullman i due punti.
Stavolta le squadre in campo erano due fin dall’inizio con i padroni di casa forti di più centimetri e muscoli e i varesini dotati di maggior tecnica e dell’ultimo arrivato Donghjeon. Fin dalla palla a due Varese ha dimostrato tutto di più. Aggressiva in difesa, precisa in attacco ma soprattutto determinata a non concedere nessuno spazio a Gradisca. Differenza cresciuta minuto dopo minuto fino al + 26 finale che a due giornate dalla fine della stagione regolare vale una ruota nei play off.
Ma la vittoria oltre il probabile passaggio del turno ha detto molto di più. Al suo primo anno nel massimo campionato Varese può contare su una squadra vera con un tecnico che ha capito più di ogni altro collega che l’ha preceduto senza arrivare al termine della stagione cosa significa allenare l’Handicap Sport.
L’andata e ritorno a Gradisca, dieci ore di pullman inframmezzate dalla partita che valeva una stagione, hanno messo in evidenza un gruppo di giocatori e di dirigenti che prima di festeggiare la vittoria ha pensato ai compagni costretti a casa. 
Un gruppo che ad ogni partita casalinga sa far muovere da casa tanta gente che magari nemmeno conosce le regole del basket in carrozzina ma l’ha scoperto e lo segue perchè lo gioca una squadra di Varese che ha rischiato di scomparire, ha tenuto duro che più duro non si può e con l’aiuto di pochi ha saputo rialzarsi e quindi, trattandosi di basket da seduti, compiere un miracolo. Un gruppo che quando viaggia deve smontare le carrozze per salire in carrozza e rimontare le carrozze per scendere dalla carrozza. Un gruppo abituato a montare e smontare carrozzine e protesi ma determinato a non smontarsi mai.
Un gruppo integrato composto da disabilità, culture e Paesi diversi capace di accogliere e inserire senza contraccolpi o sbandate anche un giovanottone arrivato a Varese dall’altra parte del mondo con il suo bagaglio di centimetri, muscoli e tecnica. 
Per il ventiseienne sud coreano Kim Donghjeon l’innesto nella squadra di basket in carrozzina di Varese è stato immediato e vincente. Amputato della gamba destra dall’età di sei anni in seguito ad un gravissimo incidente automobilistico, Kim scopre il basket da seduti a quindici anni diventando in breve uno dei migliori giocatori del suo Paese, miglior “Centro” ai Giochi Asiatici del 2014.
Al suo terzo anno nel campionato italiano dopo le due stagioni a Macerata, nella partita di Gradisca Kim ha messo in mostra il meglio di se. Cattivo con gli avversari, propositivo con i compagni, piovra a rimbalzo e mano calda, sempre con un sorriso in stile Bud Spencer stampato sul viso. Conclusa la sua fatica, dà il cinque ad ogni componente della comitiva varesina in trasferta, stringe la mano e abbraccia il suo avversario diretto - il quarantenne bosniaco Izet Sejmenovic, altra storia tutta da raccontare figlia della tragica guerra nella ex Jugoslavia - e infine rivolge un lungo applauso allo sportivissimo pubblico di casa che per l’occasione ospitava un ammiratissimo Francesco Moser.
“Stasera abbiamo fatto una grande partita - attacca Kim - non sapevo che bastava vincere di 7 altrimenti mi sarei fermato prima visto che dovevamo recuperare le cinque ore di pullman dell’andata e adesso ce ne toccano altrettanto per tornare a casa”.
Ah, quindi Varese è già casa?

“A Varese e con questa squadra mi sono trovato subito bene - continua Kim senza far vedere il colore dei suoi occhi - Sto bene con i miei nuovi compagni, con i dirigenti, i tifosi e mi piace molto il vostro “Apollo” (aperitivo…).
Dopo i due anni trascorsi a Macerata ero curioso di vivere una esperienza tutta nuova che purtroppo ho dovuto iniziare a stagione in corso perché ero impegnato ai Giochi Asiatici con la mia nazionale”.
Com’è il basket in carrozzina in Corea del Sud?
“Rispetto all’Italia è decisamente meno considerato e di minor qualità. Nel campionato nazionale giocano sei squadre delle quali solo due sono a buon livello. Qui invece si incontrano grandi squadre e ottimi giocatori. A Macerata pur ottenendo buoni risultati alternavamo partite esaltanti e deludenti. A Varese fin dal primo allenamento ho capito di essere arrivato in una grande squadra composta da ottimi giocatori in grado di giocarsela contro chiunque”.
Un voto in pagella a Varese per vivibilità e accessibilità.
“Varese è molto graziosa e mi sembra che per chi come me cammina grazie ad una protesi sia possibile muoversi abbastanza agevolmente. Invece, l’aspetto che voglio sottolineare è la naturalezza con la quale da voi una persona in carrozzina o con una protesi si muove tra la gente senza diventare un’attrazione o destare sguardi particolari.
In Corea purtroppo non è così”.
Era il caso il giorno prima di giocare una gara che vale una stagione di farsi un tatuaggio al limite del condono edilizio? 

“In effetti non è stata una bella idea - sorride Kim, finalmente ad occhi socchiusi - prima di giocare mi sono messo sul braccio una dose industriale di crema che il sudore ha ripulito in fretta causandomi un bruciore poco piacevole. Non importa, è una cosa che volevo fare per dedicarla a mia figlia nata da pochi mesi che mi ha raggiunto in Italia con mia moglie e i miei cari. Ho messo la sua data di nascita, il suo peso, il suo piede attuale a grandezza naturale e il nome che abbiamo scelto per lui: Riwon”

19 dicembre 2014

BEBE FOREVER

Bebe Vio è arrivata in cima.
Rompendo muri e protesi in serie Bebe ha scalato una montagna con al fianco due infaticabili sherpa di nome Teresa e Ruggero, la sua mamma e il suo papà.
Bebe Vio campione del mondo di scherma paralimpica è un capitolo annunciato di una storia che contamina chiunque ha la voglia di seguirla o la fortuna di viverla. In un recente incontro con una scolaresca Bebe se ne è uscita con un disarmante “la malattia che mi ha tolto braccia e gambe non è poi così cattiva…”. Bebe è fatta così e lo è da quando si è messa alle spalle il momento più brutto della sua vita e di chi la sua vita gliel’ha donata. Al suo esordio nella scherma paralimpica, il pubblico di un palazzo dello sport si alzò in piedi per applaudirla a lungo. Qualcuno ebbe la bella idea di metterle davanti alla bocca un microfono.
“Vorrei chiedere alle autorità belle comode in prima fila perché non si sono alzate come il resto del pubblico?”.
Eccole le stoccate che hanno fatto di Bebe una campionessa del mondo prima di mettersi al colla qualsiasi medaglia.
Eccole quelle uscite che regalano a mamma e papà quelle emozioni e quei sorrisi che entrambi pensavano di aver perso per sempre in un giorno tremendo nemmeno tanto lontano.
Un giorno durato molto di più che Bebe liquida con un semplice “non ho brutti ricordi di quando ero in ospedale anzi.
Mi ricordo solo che venivano trovarmi in tanti, piangevano e mi lasciavano un sacco di regali”. E da quando è uscita dall’ospedale Bebe ha saputo restituire regali a piene mani. Si perché Bebe ti fa dimenticare che le mani non le ha. Lo stesso vale per le gambe. Se ne sono dimenticati anche i componenti di una commissione medica internazionale che per qualche anno l’ha costretta a gareggiare con chi gli arti li aveva. Poi, qualcuno s’è accorto della differenza rietichettandola come categoria B. “B forever?”, domandò Bebe ai sanitari, “B forever" fu la risposta divertita.
E’ un caso mondiale ma è la ragazzina che si diverte un mondo con le sue amiche di Mogliano Veneto. E’ tempestata di impegni ufficiali ma non perde un’uscita con gli scout. E’ aperta al mondo intero ma guai a violare la sua vacanza per eccellenza all’Isola d’Elba con i fratelli Maria Sole, Nicolò e il fedelissimo Taxi. 
Bebe non è un esempio perché non lo vuole essere. Bebe non è una persona con disabilità perché non vuole esserlo. Bebe sa dare lezioni, questo si, ma a scuola ci va da studente e non per insegnare. Bebe non puoi frenarla o classificarla. 
Bebe è Bebe sempre, forever. 

25 novembre 2014

SCELTE...

Spettacolare reportage di Toni Capuozzo su Rete 4 a poco più di un mese dal ritiro del contingente italiano in Afghanistan. 
Un gioiello giornalistico fatto di racconti incastonati di immagini. Tra i volti anche quelli di un giovane varesino di Samarate. Tra le parole anche quelle dell’immenso Alberto Cairo. 
Alla stessa ora, sulla rete ammiraglia della tv di stato, Bruno Vespa intervista Valeria Marini e la sua mamma… 

09 novembre 2014

4:42:50...

4 ore, 42 minuti e 50 secondi trascorsi combattendo il vento gelido e la fatica, catturando emozioni, immagini e musica, tagliando il traguardo a braccia alzate e sorridenti. La realtà della partecipazione alla maratona di New York ha abbondantemente superato il sogno. Ai primi facili entusiasmi del “siamo tutti con te” è stato necessario intervenire ricorrendo al caro e vecchio ma sempre affidabile “fai da te”. Terreni di preparazione del sogno principalmente due: l’anello per lo più in salita intorno alla Chiesa di San Bernardino (un Santo in squadra è sempre utile…) a Induno Olona
e la ciclopedonabile intorno al Lago di Comabbio con partenza e arrivo a Ternate. Da non trascurare anche il tratto in asfalto (l’unico) di 950 metri a picco sul mare nella splendida Isola di Levanzo, battuto avanti e indietro nella prima decina di settembre. 
Decisivo l’incontro con la nutrizionista Claudia Luoni in arte Yaya 
capace di infilarmi nella scarsa materia cerebrale rimasta la linea guida per mangiare di più e meglio, come mi chiedeva da sempre la Marghe. Fondamentali la visita sportiva in MAPEI dalla quale ho ricevuto in premio la pastiglietta per tenere a bada la pressione, i consulti telefonici e un paio di visite dal paziente dott. Carlo Guardascione, le indicazioni pratiche dal totem Sandro Galleani e i massaggi al buio (per lui) del radioso fisioterapista Daniele Cassioli, campione nello sport e nella vita di tutti i giorni. Poi oh, c’ho messo anche del mio! Solo nell’aprile scorso a tre quarti del secondo giro di camminata veloce del Lago di Comabbio (più o meno 20km) ho incontrato parenti e amici scomparsi, visto il lago girarsi su stesso tipo “montagne russe” e in cielo la scritta a caratteri cubitali “GAME OVER”. Imparata la lezione, sei mesi dopo, passo dopo passo, corsetta dopo corsona, compresa una scarpinata andata e ritorno con il Vanni e il Renato ai 3000mt del Bivacco Leonessa, sono pronto. 
Con 9kg in meno e 530 km nelle gambe metto piede sull’aereo per New York. Con me la Marghe, la Ste di Sestero Stefano Zanini con la sua Rossana, Roberto Cimberio con le sue tre donne Paola, Alessandra e Giorgia, il vice presidente del VISPE Carlo Leoni. In attesa dell'imbarco è scattata la foto di gruppo e il pensiero vola a quando e dove è iniziata questa avventura.
Missione VISPE di Mutoyi, Burundi. L’occasione del terzo viaggio in Africa era quella di condividere con Roberto Cimberio e Francesco Caielli l’inaugurazione della scuola elementare di Bugenyuzi costruita grazie anche a tanti varesini, camminare sul ponte di Kaziga, ristrutturato grazie a tanti amici e distribuire la maglie Sestero ai donatori di sangue dell’ospedale di Mutoyi. 
Una sera, nella chiacchierata con gli Angeli di Mutoyi (video) nel “refettorio religiosi”, il Cimberio salta fuori con la promessa “torneremo da voi per inaugurare un’altra scuola, questa volta professionale, dopo aver corso la maratona di New York del 2014 con la quale raccoglieremo i fondi necessari tramite le scommesse su di noi di amici e parenti”.
Cimberio e Caielli avevano già pensato ‘na roba del genere nel 2012, quando la raccolta fondi diede i frutti sperati, anche se all’ultimo momento la maratona nella grande mela venne annullata a causa dell’uragano che passò da quelle parti il mese prima.
Quella sera a Mutoyi io e Stefano davamo per scontato che la frase pronunciata dal Cimberio “torneremo dopo aver corso la maratona” fosse riferita a se stesso e a Caielli. Confuso nell’applauso che concludeva l’incontro il buon Carlo Leoni sussurrò sorridendo a chi gli stava vicino “la facciamo, la facciamo”. Una esclamazione al plurale che io pensavo si riferisse alla realizzazione della nuova scuola. E invece no. 
Durante il lungo volo del rientro a casa ragionavamo già come una squadra con tante cose da decidere ma con la certezza che la promessa fatta agli Angeli dal Cimberio riguardasse anche me.
Una buona causa per iniziare a correre c’era. A me serviva anche una buona ragione che trovai velocemente: corretta alimentazione per ridurre l’evidente tracimazione del giro vita. In una parola: salute.
Il classico sobbalzo dell’aereo in atterraggio sulla pista del John Fitzgerald Kennedy mi riporta al presente.
Giusto per non farci sentire la malinconia del meteo varesino fuori piove e fa freddo. La coda per uscire dall’aeroporto è lunga e lenta. Lasciamo ogni tipo di impronta e risposte in serie a domande del tipo “è qui per correre la maratona o per farsi saltare in aria?”, si arriva finalmente in hotel. 
Non riesco a chiudere occhio. Per il fuso e per ciò che immagino di dover affrontare.
Come la vigilia di Natale anche quella della maratona la passiamo in famiglia. Infatti sabato mattina, nel rispetto della tradizione, i coniugi Bof e Zanini e la famiglia Cimberio si presentano al via della “Dash”, camminata popolare di 5km nel cuore di New York con arrivo sullo stesso traguardo della maratona. 
Piove e fa freddo ma il morale è alto anche perché nessuno di noi può immaginare le condizioni meteorologiche del giorno dopo. A detta di molti le peggiori delle ultime 12 edizioni della maratona.
A spasso tra i grattacieli mi viene il dubbio di essere capitato in un altro mondo. Un bus si ferma e apre la porta alle persone in coda. Dalla stessa porta scende l’autista e con un telecomando libera il montacarichi per scaricare un passeggero in carrozzina. 
Operazione lenta, in assoluta sicurezza, alla quale la coda assiste con ammirazione e pazienza. A ruote sul marciapiede la persona con disabilità ringrazia tutti per la pazienza dà una mancia all’autista e se ne va per i fatti suoi. L’autista risale sul bus seguito dalle persone in attesa. Proseguo anch’io tra l’incazzato di esser rimasto piacevolmente sorpreso da una scena che dovrebbe essere la normalità e la conferma che un diversamente mondo non si può solo sognare. Pochi metri più in là mi sveglio: all’imbocco dello scivolo che favorisce l’accesso al nostro hotel c’è una bici legata con una catena al corrimano. Cultura-coglioni:1-1.
Altra notte parzialmente in bianco. La sveglia alle 5 è inutile. Inizia la vestizione e l’alimentazione. Tazza di thè caldo e poi scendo nella hall già affollata vestito come se dovessi iniziare la salita alla Capanna Margherita del Monte Rosa. Il tempo di mangiare controvoglia il primo dei due mega panini - imbottiti di improbabili fette di tacchino acquistate la sera prima in uno di quei bazar che da queste parti chiamano “farmacia” -  e pubblicare l’ultimo messaggio pre gara su FB e il quartetto è compatto, pronto per salire sul primo pullman. Direzione Manhattan da dove i traghetti vanno e vengono, senza fare l’inchino davanti alla statua della libertà, trasportando migliaia di maratoneti sulla sponda di Staten Island.
Alla stazione d’imbarco, la saggia decisione del capitano Stefano Zanini è quella di fermarci al caldo fino al penultimo traghetto. Così facendo evitiamo di prendere altro freddo e veniamo raggiunti da Umberto ed Edoardo Croci, padre e figlio varesini. 
Sbarcati dall’altra parte ci ritroviamo per tre quarti d’ora in un’altra coda per il secondo pullman, per fortuna serrata quel tanto che basta a ripararci dal vento gelido. Finalmente arrivati al parco universitario ai piedi del ponte di Verrazzano, veniamo scaricati, perquisiti e indirizzati ai rispettivi cancelli di settore. Nell’aria “New York New York” cantata da Frank “The Voice” e i colpi di cannone che scandiscono le partenze delle prime tre “onde”. Noi siamo nella quarta e ultima. Ormai ci siamo. Lasciamo a terra i vestiti in eccesso che per tradizione vengono donati a disagiati e barboni. 
Dalla sveglia stoppata prima di suonare sono trascorse 6 ore, 2 panini con tacchino, 5 barrette di vario tipo, 2 schifosissimi gel al gusto d’arancio che gli addetti ai lavori paragonano ad un abbondante piatto di pasta, una borraccia da 750cl di   integratori e, per la prima volta nella mia vita, proprio in simultanea al colpo di cannone del ”via!”, un granitico pocket ripieno di un gelido coffe. I primi passi di corsa sul ponte - anzi, sotto il ponte - tolgono il respiro. In parte per l’emozione causata dallo spettacolare colpo d’occhio composto da un fiume colorato di gente che saltella dietro e davanti a noi e sullo sfondo le sagome dei grattacieli di Manhattan, 
ma soprattutto per il vento siberiano e contrario che gela ogni parte scoperta del corpo: gambe, mani e faccia. Scesi dal ponte la situazione migliora anche se la cornice di gente al bordo della strada scalda il cuore ma non il resto. I primi km di corsa hanno disperso l’allegra brigata. Solo io e Stefano siamo rimasti insieme ma poco dopo il decimo km Stefano ha un’urgenza fisiologica che lo costringe in coda davanti ad uno dei bagni chimici presenti sul percorso. Ci dividiamo concordando che il sottoscritto continuerà a passo ridotto sulla sinistra della strada. Da solo (si fa per dire…), arrivo al segnale delle 13 miglia dove una mano sulla spalla e un urlo di gioia mi annunciano il rientro di Stefano giusto in tempo per passare insieme davanti alla foto cellula che segna metà gara. Per non pensare lui al dolore crescente causatogli da un tendine insignificante per pedalare ma fondamentale per correre, io al fatto che alla fine manca ancora un bel po’, basta guardarci intorno. Oltre a bere e mangiare ad ogni punto di ristoro, facciamo foto, video, diamo un “cinque” a chiunque ce lo chieda, balliamo e cantiamo. All’improvviso mi blocco. Davanti a me ho un signore che di schiena, seduto in carrozzina, sta scivolando sulla strada spingendosi solo con le gambe, scortato da tre volontari.
Seguendolo incrocio il suo sguardo. Da sotto il casco mi sorride. Mi sblocco, lo avvicino, lo abbraccio e lo bacio senza fermarlo poi lo lascio e riprendo il mio ritmo al fianco di Stefano. Entrambi con gli occhi lucidi. Ma non per il vento. Ormai abbiamo attraversato anche il Bronx. Stefano inizia la caccia alle mogli che più o meno sappiamo dove ci aspettano tra il pubblico. In realtà loro ci avevano già visti e incitati molto prima ma noi nel casino non le avevamo sentite. Eccole finalmente! La breve sosta è provvidenziale e l’abbraccio rigenerante. La gente a bordo strada è impressionante. Entriamo a Central Park ma oltre al cartello di benvenuto c’è quello che smorza il nostro entusiasmo ricordandoci che all’arrivi mancano ancora 6,195 km di saliscendi. Consapevolezza che ci fa comunque gestire al meglio il finale tagliando il traguardo come sogniamo da mesi: insieme e sorridenti. 
Nessuno di noi due pensa al tempo. Gli addetti interrompono il nostro abbraccio per metterci la medaglia al collo, scattare la foto ufficiale, coprirci con una provvidenziale metallina e una calda mantella. Poi ci spingono verso l’uscita dove, camminando ancora per qualche centinaia di metri, ritroviamo la Marghe, la Rossana e le donne Cimberio. 
Altri abbracci, altre foto e poi via di buon passo verso l’albergo perché il tremore per il freddo è diventato ingovernabile e tale resta anche una buona mezz’ora dopo la doccia calda e il ricovero sotto le coperte. All’appuntamento nella hall per la cena, fissato la sera prima, ci presentiamo puntuali e in buone condizioni. 
E’ commovente lo scambio di abbracci, leggere in quanti ci hanno seguiti da casa e il pensiero comune per i nostri amici in Burundi che stanno costruendo una scuola professionale a Bugenyuzi con tre laboratori che saranno intitolati a tre angeli: Carolina Dalla Bona, Luca e Martino Colombo.
Per correre con noi: www.cimberiorun4africa.it

17 ottobre 2014

I VOTT DE LA VESIGA, I SILENZI E LA DOMANDA SENZA RISPOSTA

Io conoscevo già tutti. Il Giannino quasi. Tra loro il Pol e il Tenca sono come fratelli ma gli altri gli hanno già visti chi un paio di volte chi mai. Il Piccinelli conosce solo il Luis. Il Morazza solo il Corbella. Eppure, già in coda sulla Varese-Milano siamo tutti amici da sempre. Lingua ufficiale il dialetto più o meno bosino. Ogni mezz’ora una perla di saggezza contadina. Dall’autogrill di Castronno fino al primo pernottamento ospiti della Famiglia Borsoi a San Pietro di Feletto nessuno tocca l’argomento salute. Esami, controlli, ricoveri recenti, interventi programmati. Niente per oltre 12 ore! Almeno per il Giannino è un record.
Nel nostro primo giorno in viaggio siamo accolti e presi per mano dalla direttrice del Museo della Croce Rossa Internazionale Maria Grazia Baccolo che ci accompagna dov’è nata l’idea di Croce Rossa. Da Castiglione delle Stiviere a Solferino, dal memoriale all’ossario. 

Regalo di giornata l'arrivo della splendida Giulia con i suoi genitori  che hanno pranzato con noi.
In serata, sotto lo stesso nubifragio che ci ha coperto dalla partenza e non senza una sosta benefica a Roncade, nella tenuta dei cognati e nipoti del Pol dove siamo stati accolti accolti da baci, abbracci, soppressa, bianco e coca cola, arriviamo, dopo un'altra tappa fuori programma in una cantina della zona, dai Borsoi a Falzè di Piave per cenare a San Pietro di Feletto e dormire a Sernaglia della Battaglia.
Poche ore ma intense comprensive da parte del capofamiglia Claudio, del miglior complimento per chi ha messo insieme l’allegra compagnia, “si vede che siete amici da sempre!”. 
La mattina seguente altra bella scoperta: il “piedibus” organizzato dai genitori per accompagnare i bambini a scuola limitando al minimo le penose processioni di auto davanti all’entrata, diventate ormai diritto acquisito in ormai gran parte della nostra penisola di Pulcinella.
Dopo aver chiuso le porte della scuola elementare salutando i "mini Borsoi" Margherita e Matteo sfornati da mamma Maristella, a metà mattina del secondo giorno il pulmino messoci a disposizione dalla gloriosa Handicap Sport Varese si rimette in moto in direzione Monte Grappa. Il cielo non è quel bel blù che si desidera ma in confronto al nero dell’intera prima giornata è sole pieno.
All’arrivo al Sacrario scende spontaneo il silenzio che ci accompagna fino alla ripartenza per Seren del Grappa, tappa per il pranzo ma soprattutto paese natale di Sebastiano Bof, papà del Giannino. Sosta obbligata davanti al nome del paese rigorosamente inciso nel legno e via che si riparte per Feltre passando da Lentiai, paese natale di Margherita Scariot, mamma del Giannino. 
All’arrivo a Feltre la compagnia si sgretola nelle rispettive camere per una siesta programmata che diventa una dormita prolungata. Al risveglio in sette hanno voglia di birra e il profumo del luppolo ci teletrasporta fino alla vicina Pedavena, culla della birra locale e non solo.
La sveglia risuona per dare il via al terzo giorno. Uscendo dalla “Locanda del Re” di Feltre dopo una veloce colazione ci contiamo in sette! Manca il Giannino…lo ritroviamo all’interno impegnato con il proprietario nella ricostruzione dell’albero genealogico dei Bof e degli Scariot. Arrivato a quattro generazioni precedenti lo prendiamo in braccio per metterlo sul pulmino pronto a partire per un’altra terra che genera silenzio: il Vajont. 
Grazie alla guida che ci segue e racconta per l’intera giornata con pausa pranzo a Erto, della tragedia del Vajont ne sappiamo di più. E’ un bene  perché potremo raccontarlo a nostra volta senza far parte di chi ne parla per sentito dire. 
E' un male perchè leggere il telegramma inviato dai responsabili ENEL negli Stati Uniti poche ore dopo la tragedia all'ingegnere convinto di poter governare la frana fa male.  
E’ un male perché al silenzio generato dalla visita al cimitero e al museo di Longarone si aggiunge l’amarezza per l’ennesima storia tutta italiana che ha causato dolore, ha arricchito sul dolore, ha lasciato dolore, rabbia e rancore a chi è rimasto.
La sera scende e il pulmino sale verso Castello di Fiemme. Il Morazza chiede un pit stop per esigenze idrauliche. Al rincrescimento dell’autista impossibilitato ad una rapida fermata in mancanza di uno spazio in sicurezza per svolgere il servizio richiestogli, il Corbella tranquilizza quest'ultimo: ”Des se fermum, ghe mia premura. Tant, te se mia che vesìga che’l gà ul Morazza?”. Alla lode delle proprietà elastiche della vescica del Morazza l’allegra compagnia scoppia in una corale risate e a spazio individuato scende al completo sull’erba tra un tornante e l’altro, solidale con l’amico nello svuotare il prezioso organo. Tutti insieme con una mano sul fianco e l’altra a far da supporto all’accessorio per alcuni ancora polivalente per altri meno. Quella stessa mano che al termine della distensiva e comune tracimazione ci stringiamo tra noi come per congratularci del bel momento condiviso sulla via per la splendida Val di Fiemme dove siamo attesi dalla famiglia Necchi per la cena e dal fiabesco “Maso Pertica” per il pernottamento.
Nel primo e ultimo risveglio in valle lo scenario indica da subito come uno dei componenti sia a rischio scomparsa e infatti… 
La generale allegria per il cielo finalmente azzurro si stoppa subito per una domanda che sorge spontanea: 
”Il Piccinelli! Dov’è il Piccinelli?”. Lo sguardo di tutti si sposta sulla stalla. E infatti il Piccinelli è lì che parla ad un trattore che sarebbe capace di smontare e rimontare al buio. Lo guarda, lo accarezza e poi all’ennesimo invito degli altri lo saluta e torna tra gli umani. 
Prima di riprendere la strada verso casa andiamo non lontano, a Cavalese, per avere conferma di quanto avrebbero dovuto subire i militari di un “caccia” americano che il 3 febbraio 1998, per divertimento, hanno tranciato il filo della funivia del Cermis ammazzando venti persone. Il pilota e il tecnico a bordo furono riportati in fretta e furia negli Stati Uniti. Tempo dopo, puniti solo con una retrocessione di grado e il cambio delle rispettive funzioni, uno di loro dichiarò: ”Quando ci dissero che avevamo ucciso così tante persone scoppiai a piangere come un bambino e mi chiesi perché noi eravamo vivi e loro erano morti”. Già ex capitano Joseph Schweitzer al pari del pilota ex comandante Richard Ashby, ma anche del buon ex presidente del consiglio italiano Romano Prodi e dell’ex pornopresidente americano Bill Clinton, perché?